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Oggi è trascorsa una settimana dalla tragedia di Caldes, sette giorni in cui abbiamo preferito restare in silenzio in segno di rispetto per quello che è accaduto, prendendoci del tempo per pensare, qui, tra le foreste del Trentino che hanno accompagnato le molte riflessioni. Abbiamo inoltre evitato per quanto possibile di leggere le opinioni e gli articoli pubblicati in questi giorni, in un dibattito che fin dalle prime ore ci è sembrato francamente irrispettoso e insostenibile: da una parte i proclami da far west di alcuni esponenti politici, dall’altra l’isteria animalista completamente distaccata dalla realtà dei fatti.

Sul Monte Peller mercoledì scorso è morto un ragazzo ed è proprio questa tragedia il punto fermo da cui tutti coloro che hanno a cuore i grandi carnivori, la montagna e l’ambiente dovranno ripartire. Non esistono giustificazioni per quello che è accaduto, e forse non esistono nemmeno colpe: quella che, statistiche alla mano, sembrava solo una possibilità remota, si è purtroppo verificata. L’effetto di quanto avvenuto è devastante e lascia intendere che tra questi boschi, che delle Alpi sono simbolo e specchio, non ci sia più spazio per orsi, lupi e per tutto ciò che può rappresentare una minaccia per la vita dell’uomo. La paura sembra oggi l’unico sentimento che circola sul fondovalle.

In questo contesto è davvero difficile provare a ragionare, eppure è necessario farlo provando a fissare subito alcuni paletti per ripartire: JJ4, l’esemplare responsabile dell’uccisione del giovane dovrà essere abbattuto, e sarà necessario comprendere che la sua rimozione non solo è necessaria per la sicurezza delle persone, ma è anche un atto utile alla conservazione dell’orso bruno sulle Alpi. Per noi questo non è un concetto nuovo, lo abbiamo scritto più volte anche di M49, l’orso rinchiuso a vita in un box di cemento del Casteller di Trento, per buona pace di una politica dei proclami che sembra non volersi sporcarsi troppo le mani e di un animalismo miope che preferisce avere un orso rinchiuso in gabbia piuttosto che morto in libertà tra i propri boschi. Abbattere JJ4 è quindi un atto estremo, che non ci piace di certo, ma di fatto necessario, utile anche a prevenire atti di giustizia fai-da-te, ed è la chiave del compromesso per la conservazione che altrove viene utilizzato da anni. Cittadini, associazioni, politici e amministratori oggi sono chiamati a trovare dei punti di incontro su una vicenda profondamente divisiva e in cui ognuno deve fare la sua parte, alcuni più di altri, per assicurare una risposta a chi abita in questi luoghi, la sopravvivenza della fauna che li vive, e a tutti coloro, noi inclusi, che lavorano per la conservazione dei grandi carnivori allo scopo di ridurre i conflitti. Non può esistere conservazione né tantomeno Coesistenza che non includa l’accettazione da parte delle comunità locali, ed è qui che oggi è necessario lavorare.

Se ci guardiamo indietro sono quasi 25 anni che l’orso è stato riportato sulle Alpi allo scopo di salvare la popolazione residua, un paio di esemplari maschi prossimi all’estinzione. Ideologicamente il percorso che nel 1999 ha portato alla realizzazione del LIFE Ursus è iniziato quasi un secolo prima, dalle menti di illuminati naturalisti che già da tempo avevano capito che bisognava adoperarsi per la conservazione dell’orso sulle Alpi prima che questo scomparisse definitivamente per mano dell’uomo, ed è sempre per mano dell’uomo che si è provato a invertire la rotta salvandolo dall’estinzione, restituendo a queste montagne non solo una specie fondamentale per l’ecosistema, ma anche un simbolo dal grande valore naturalistico e culturale. Da allora di errori ne sono stati commessi tanti e di ogni colore politico: a cominciare dalla mancata prosecuzione del progetto LIFE Ursus, terminato nel 2004 e che sarebbe dovuto essere replicato e rinnovato nel corso degli anni successivi alla sua conclusione con un focus verso le comunità locali, fino ad una narrazione dell’orso spesso insufficiente, preda delle mire politiche e troppo slegata dalla realtà Alpina.

Per questo stesso motivo ad oggi rimangono in Trentino troppi tabù: non solo gli abbattimenti degli orsi problematici senza che questi vengano contestati da una parte o strumentalizzati dall’altra, ma anche la possibilità di valutare nuovi inserimenti di esemplari allo scopo di arginare l’inbreeding paventato da alcuni esperti, così come tutte quelle iniziative che altrove sono normali come la chiusura temporanea di aree dove sono presenti femmine con piccoli, attività di monitoraggio e ricerca continue ed avanzate, la legalizzazione del bear spray e la presenza di una segnaletica più incisiva e adeguata al contesto, così come la mancanza di bear smart community, attività produttive, commerciali e singoli cittadini uniti per prevenire il conflitto uomo-orso attraverso la promozione di buone pratiche. In generale si è scelto di proporre una narrazione comunicativa quasi esclusivamente legata agli orsi “problematici” e una divulgazione scientifica insufficiente sia nelle scuole di ogni grado, sia in tutti quei contesti necessari a rendere una comunità consapevole che di orso si può vivere ma anche purtroppo morire.

Oggi la sfida è enorme: naturalisti, tecnici, amministratori e associazioni devono comprendere che quella dell’orso sulle Alpi è una delle più grandi e complesse iniziative legate alla coesistenza tra uomo e grandi carnivori che l’Europa sta affrontando e con questo spirito da oggi bisognerà cambiare rotta e iniziare a lavorare con un approccio nuovo e condiviso che veda il dialogo, lo scambio e il compromesso come ingredienti principali. Siamo coscienti che non tutti vorranno farlo e che sarà difficile che la politica comprenda che dinanzi a questa tragedia stridono i proclami come le deportazioni di massa o le rimozioni forzate: indipendentemente dal numero di orsi presenti sul territorio di una valle o dalla quantità di informazione che si farà rispetto alle buone pratiche da adottare bisognerà ricordarsi che quando si parla di animali selvatici il rischio zero non esiste ma che molto può essere ancora fatto allo scopo di ridurlo. Oggi più che mai è il momento di lasciare ai tecnici e alle persone competenti la gestione di questi temi, ritrovando la fiducia di tutti, anche di coloro che l’hanno persa rispetto all’operato istituzionale, prendendo decisioni serie in ottica di conservazione della natura al fianco dell’uomo, in un panorama ambientale enormemente complesso.

In questo scenario appare evidente l’urgenza di promuovere una nuova consapevolezza nell’approcciarsi alla natura e da oggi più che mai sarà necessario per tutti noi sviluppare un modo differente di vivere e rapportarsi al mondo selvatico. All’atto pratico significa accettarne e comprenderne i rischi così come goderne dei privilegi, praticando scelte e facendo rinunce, allo scopo di comprendere che la montagna è sia la casa della fauna selvatica, ma anche lo spazio in cui le comunità locali hanno costruito la propria cultura e sviluppato la propria vita. Occorre infine ribadire che il rapporto tra questi due elementi non può essere ridotto ad un dibattito in cui da una parte ci si limita a constatare che “l’orso ha fatto l’orso e che quella è casa sua” giudicando criticamente i comportamenti dei malcapitati tra i boschi di casa durante l’aggressione di un animale da 150 chili, dall’altra pensando di “dimezzare o rimuovere del tutto un’intera popolazione animale” per dare risposte semplicistiche a domande molto complesse.
La crescita culturale che ci attende è enorme, e prevede la difficile capacità di scendere a compromessi per non “compromettere” quanto di buono è stato fatto fino ad oggi. Saremo in grado di realizzarla? Certamente sì, ma solo se capaci di ritrovarci uniti in quel dialogo che è andato perso, per rispetto dell’uomo, della natura e di quello che abbiamo appena vissuto.

Foto di Susanne Jutzeler Sujufoto